Il direttore dell’Unione degli Industriali della Provincia di Savona, Alessandro Berta, sottolinea le lacune di un documento che “si riduce a cancellare le Autorità di Savona e Salerno, dimenticando i nodi veri: investimenti, infrastrutture, controlli sulla merce”.
Direttore Berta, Savona ha combattuto la fusione con Genova. La riforma tuttavia è andata avanti e qual è il vostro giudizio su come si appresta a chiudersi?
Se la “riforma” è quella che qualcuno ha voluto far “girare” nelle scorse settimane, il giudizio non può che essere
assolutamente negativo. È il peggior testo di modifica della legge 84/94 circolato nell’ultimo decennio e denuncia una palese necessità di dire che “si riforma” perché altrimenti il Paese muore, senza domandarsi se è davvero così e senza sapere di cosa si parla. Per fortuna, per parola dello stesso Ministro Delrio, si sono resi conto che, almeno nelle parti “operative” hanno scritto una marea di stupidaggini, e la cosiddetta “riforma”, come si poteva immaginare, si è fermata a Palazzo Chigi, dove qualcuno che ragiona ancora è rimasto.
Cosa vi spaventa di questa riforma?
Di questa “riforma” spaventa soprattutto il fatto che non è una vera riforma. Che sulla 84/94 occorresse fare manutenzione è evidente, ma questa riformetta, nei fatti e nelle motivazioni sbandierate, ha un unico effetto: fonde per incorporazione il porto di Savona in quello di Genova e il porto di Salerno in quello di Napoli. Del resto stanno lì i grandi elettori delle associazioni nazionali di settore e molti deputati e senatori “di peso”. Per cui è evidente che nessuno di questi dirà mai, in pubblico, che questa riforma è un pasticcio che non risolve nulla perché non risponde alla vera domanda: a cosa servono i porti, perché sono diversi tra loro e cosa possiamo fare per migliorarli?
Come a dire che al Ministero non conoscano la funzione dei porti in Italia?
I porti, in Italia, debbono avere due funzioni fondamentali, una per la manifattura e una per il terziario. Per la manifattura debbono essere il cancello di ingresso delle materie prime e dei semilavorati necessari per le nostre produzioni e il terminale per favorire il più possibile l’export della nostra manifattura, dei nostri macchinari. E, secondo, i porti debbono essere il veicolo di crescita del terziario e del commercio, quali terminali di ingresso dai paesi extraeuropei dei beni di consumo corrente da distribuire sul territorio. Se riusciamo a dare efficienza ai porti e al sistema burocratico amministrativo che gli sta intorno e al sistema logistico e infrastrutturale alle loro spalle, siamo già a buon punto. Dopo di che, si può provare a competere con i porti del nord Europa.
Non è un po’ troppo semplice?
Il concetto è semplice, da programma di geografia economica di seconda ragioneria. Il problema è che ci mancano anche le basi della geografia fisica: è difficile fare raffronti tra i porti sul Mare del Nord e i porti italiani, quando lassù i porti hanno alle spalle pianure sconfinate, fiumi usati come banchine e collegamenti infrastrutturali con le aree produttive a basso costo. In Italia abbiamo porti che hanno alle spalle i monti o, comunque, sono cresciuti dentro le città, senza alcuna possibilità di sviluppo di aree retroportuali dedicate e con un sistema infrastrutturale e logistico complicato e costoso. Mi sembra, invece, che si agiti la “clava” dei confronti con il nord Europa per fare, se la riforma rimane quella che è, solo dei “mini-accorpamenti” di porti che funzionano in porti che hanno dei problemi, senza occuparsi della burocrazia dei controlli sulla merce, quando il Censis ha rilevato tempi quadrupli nell’uscita delle merci dai nostri porti rispetto al nord Europa, senza occuparsi di realizzare infrastrutture logistiche per far uscire rapidamente le merci.
L’impressione è quindi che si parli in astratto di Europa e si guardi invece al vicino di casa?
Alla fine, a forza di sentir dire dal Ministro che occorre evitare che i porti “si facciano concorrenza” e visto che gli unici accorpamenti su porti di rilievo riguardano Savona e Salerno, sinceramente nasce forte il sospetto che la verità sia che Savona non deve fare concorrenza a Genova e Salerno non deve farla a Napoli, anche alla luce del fatto che, ancora oggi, a distanza di oltre dieci anni dalle scelte fatte (a Genova) nel capoluogo ci si continui a lamentare della Piattaforma Maersk e dell’accosto crocieristico Costa (in realtà negli ultimi tempi ci si lamenta anche del traffico ro-ro, che infatti, guarda caso, marcia a numeri record nel nostro porto).
Ma dunque non rischia di essere una mera difesa del campanile?
Se la mia campanella suona meglio del tuo campanone, sinceramente, non vedo perché dovrei adeguarmi, in forza di un miglioramento competitivo del quale nessuno e ripeto nessuno ci ha mai dato dimostrazione reale: ci sarà uno straccio di progetto nel quale mi dicono che, passato un anno dall’accorpamento, a Savona le concessioni costeranno di meno e sbarcare la merce sarà più conveniente rispetto ad oggi? Il problema è che questo calcolo non l’hanno fatto. Alla fine questa riformetta sì che risponde ai campanili, ma alla rovescia di come la raccontano. Se si voleva razionalizzare e determinare dove fare investimenti, non si sarebbero lasciate 14 Autorità, anche perché, con eccezione di Savona e Salerno, le altre autorità accorpate sono di second’ordine, mentre quelli che hanno fatto o vogliono fare investimenti senza senso, restano tranquillamente in sella. Insomma, è dipeso da chi aveva santi in paradiso, e Savona non li ha. Basta vedere che resta autonomo il porto di Civitavecchia che non avrebbe alcun titolo per restare tale.
Tutto da distruggere o qualcosa si può salvare?
Guardi, si può partire da alcuni spunti positivi: alleggerimento degli organi decisori, accorpamenti, ma arrivare ben oltre con i risultati. Riteniamo che le Autorità di Sistema debbono partire dalle aree economiche cui sono poste al servizio: due autorità per il Tirreno (nord e sud) due per l’Adriatico (nord e sud) e una ciascuna per le due isole sarebbero ampiamente sufficienti. Il Comitato di Gestione di Autorità di tale dimensione, se snello e composto da soggetti dotati di sufficiente competenza, potrebbe realmente fare scelte di mercato. A poche Autorità di Sistema, dovrebbero corrispondere presso i 18 – 20 maggiori porti delle Direzioni di Scalo, con forti poteri operativi e di gestione, cui spetti la redazione e la proposta dei Piani Triennali, dei Piani Regolatori da proporre al Comitato di Gestione, che, in piena autonomia, fa le proprie scelte strategiche con una visione d’insieme. Il tutto con un confronto, in ogni porto, con gli operatori, le forze sociali, l’autorità marittima, gli uffici dello Stato, in una Commissione Consultiva Locale. Se non si riesce a fare una proposta drastica come quella che le ho illustrato, allora lasciamo la legge così com’è stata scritta, vent’anni fa, molto bene.
Ma così non si mantengono i conflitti di interessi che Del Rio ha detto di voler rimuovere?
Quella dei conflitti di interesse è una di quelle altre bufale utilizzate come argomento per demolire la presenza dei privati nel momento decisorio della gestione delle Autorità Portuali. Per comprendere il perché ci siano i rappresentanti dei privati all’interno dei Comitati Portuali bisognerebbe conoscere la storia, anche delle norme. Nel 1994 si è sancito che lo Stato non si sarebbe occupato più di fare il “commerciale” nei porti: non era il suo mestiere e lo faceva talmente male che ci rimetteva molti quattrini. Da quel momento i traffici li avrebbero dovuti portare i privati, che avrebbero assunto tutti i dipendenti, tranne quelli delle Compagnie Portuali, e che avrebbero fatto investimenti nelle opere non direttamente “a mare”. I privati, ovviamente, dovevano avere il diritto/dovere di controllare che i nuovi organismi, le Autorità Portuali, non sperperassero i soldi e facessero scelte coerenti e sostenibili. Si è chiesto ai privati di assumere e investire. Scusi se è stato riconosciuto loro il potere di partecipare alle decisioni.
(anche su Savona & Impresa n. 4 / 2015)