SVolta.net ospita, una volta al mese, l’intervento eel Prof. Avv. Lorenzo Cuocolo, Professore nell’Università Bocconi, Avvocato amministrativista, titolare Studio Cuocolo (GE-MI), che farà il punto su alcune tematiche di attualità per il mondo dell’impresa.
Una recentissima pronuncia del Consiglio di Stato (sez. III n. 1345 del 22/01/2015) ci offre l’occasione di affrontare un argomento piuttosto problematico come quello delle cd. informative interdittive antimafia del Prefetto in materia di appalti pubblici.
Secondo quanto disposto dagli artt. 91 ss. del d.lgs. 159 del 2011, il c.d. “codice antimafia”, le amministrazioni e i soggetti equiparati, prima di stipulare, approvare o autorizzare i contratti di rilievo comunitario o i subcontratti, le cessioni o i cottimi di valore superiore ai 150.000 euro, sono tenute a richiedere al prefetto competente la c.d. “informativa antimafia”, l’attestazione della sussistenza o meno di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle imprese interessate a contrarre con la p.a. alle quali, nel caso risultino vicine alla mafia, sarà impedita dalla stessa informativa – che assumerà dunque le caratteristiche di una misura cautelare interdittiva – la possibilità di stipulare contratti con soggetti pubblici.
Il prefetto dovrà emettere tale attestazione, non necessariamente sulla base dell’accertamento definitivo in sede giurisdizionale di singole responsabilità penali “al di là di ogni ragionevole dubbio”, quanto piuttosto sulla base di una valutazione di sintesi, discrezionale, sui fatti ed elementi indiziari più vari raccolti dai diversi organi di polizia decidendo, in altre parole, se questi potranno costituire elementi giustificativi di un’informativa interdittiva.
Tale misura ha il fine di salvaguardare valori irrinunciabili come il buon andamento della pubblica amministrazione, la corretta gestione delle risorse pubbliche (art. 97 cost.), la dignità, i diritti e le libertà dei singoli. Appare evidente però come alla tutela di questi segua la compressione di altri principi essenziali: l’applicazione di sanzioni interdittive che impediscono al privato, valutato “in odore di mafia” dall’autorità amministrativa, di intrattenere rapporti con la p.a., delimita fortemente la sua libera iniziativa economica, tutelata dall’art. 41 cost. e, a catena, può portare anche a ricadute sul diritto al lavoro (art. 4 Cost.) che viene a mancare per l’impresa e per i suoi dipendenti.
Non potrà che essere compito del giudice controllare che il Prefetto abbia rispettato, nell’applicazione della misura interdittiva, le norme poste dal legislatore o, con altre parole, che non abbia sacrificato inutilmente diritti costituzionalmente garantiti del privato: il problema è quindi capire in che modo l’informativa, atto discrezionale, potrà essere sottoposta al suo sindacato di legittimità, che non può estendersi al merito.
A riguardo, il Consiglio di Stato ha affermato, allineandosi alla giurisprudenza consolidata, che potrà essere preso in considerazione solo il profilo della logicità del provvedimento, quale figura sintomatica di eccesso di potere, ripercorrendo la valutazione compiuta dall’autorità amministrativa dei fatti accertati.
Nel caso in esame, il giudice amministrativo ha annullato il provvedimento interdittivo perché basato su fatti risalenti nel tempo (seppure obiettivamente consistenti: condanne patteggiate per corruzione, associazione a delinquere, turbata libertà degli incanti), e fatti più recenti (lavori dati in subappalto ad una ditta risultata implicata in attività mafiose) che, anche messi in relazione fra loro, non erano in grado di dimostrare o far supporre un rischio attuale di condizionamento dell’impresa da parte della criminalità organizzata.
L’informativa antimafia – afferma, infatti, il Consiglio di Stato – per produrre efficacemente i suoi effetti, deve fondarsi su elementi precisi, collegati tra loro e riguardanti, sia dal punto di vista numerico, sia dal punto di vista economico, una parte consistente dell’appalto.
In particolare la decisione ha chiarito che nel caso in cui sia accertata la vicinanza delle società subappaltatrici alla criminalità organizzata, per verificare l’effettivo pericolo di condizionamento occorre guardare al complesso dell’operazione economica, valutando se l’infiltrazione mafiosa riguardi o meno una parte minima e quantitativamente non significativa dei subappalti.
Il collegio si è curato inoltre di sottolineare, per evitare pericolosi equivoci, che una simile impostazione non garantisce alle imprese di grandi dimensioni una sostanziale esimente in materia di informativa antimafia, essendo infatti possibile che anche da piccole (economicamente) vicende possano trarsi elementi indiziari di un collegamento di una grande impresa con la malavita organizzata, purché corroborate, nella valutazione d’insieme che deve essere effettuata dal Prefetto, da altre precise risultanze.