SVolta.net ospita, una volta al mese, l’intervento del Prof. Avv. Lorenzo Cuocolo, Professore nell’Università Bocconi, Avvocato amministrativista, titolare Studio Cuocolo (GE-MI), che farà il punto su alcune tematiche di attualità per il mondo dell’impresa.
LA PROVA DEL DANNO ANTITRUST TRA TUTELA PUBBLICA E PRIVATA DELLA CONCORRENZA
La sentenza della Cassazione civile n. 11564 del 4 giugno 2015 ci offre l’occasione per affrontare l’interessante questione del risarcimento del danno da illecito antitrust.
Nel caso di specie, un gruppo di commercianti all’ingrosso di prodotti ortofrutticoli, che operava presso un centro commerciale, aveva proposto domanda per il risarcimento del danno nei confronti della società che gestiva il centro commerciale medesimo, lamentando un abuso di posizione dominante da parte di quest’ultima.
La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso avverso la sentenza della Corte d’Appello – competente in primo grado per gli illeciti antitrust – la quale aveva rigettato la domanda risarcitoria, ritenendo non adeguatamente comprovato il fatto illecito. La Cassazione, infatti, ha ritenuto necessario un alleggerimento dell’onere probatorio in capo al danneggiato, in considerazione delle norme europee, ed in particolare della recente Direttiva 104/2014, che mirano a garantire ai soggetti vittime di illeciti antitrust una tutela giurisdizionale effettiva.
Come noto, la libera concorrenza rappresenta uno dei principi fondamentali dell’Unione Europea. Essa è disciplinata dagli artt. 101 e 102 del TFUE, che vietano le intese, le pratiche concordate e le associazioni di imprese incompatibili con il mercato comune, nonché lo sfruttamento della posizione dominante nel mercato o su una parte di esso.
Vi sono in particolare due gruppi di strumenti volti a contrastare le intese restrittive e gli abusi di posizione dominante: il controllo pubblico (public enforcement) e quello privato (private enforcement). Con il public enforcement, la tutela della concorrenza è affidata alle Autorità indipendenti (in Italia l’AGCM), cui la legge attribuisce poteri regolatori, di governo e sanzionatori, nonché penetranti poteri istruttori, volti a consentire alle Autorità di acquisire d’ufficio le informazioni necessarie per l’espletamento delle proprie funzioni.
Viceversa, con il private enforcement è il privato – un’impresa o un consumatore – ad attivarsi, con la proposizione di azioni risarcitorie per violazione delle regole della concorrenza. In tale ambito occorre distinguere da una parte le azioni cd. “follow on”, dipendenti, nelle quali la domanda risarcitoria è proposta a seguito di un accertamento dell’infrazione da parte dell’Autorità; dall’altra le azioni cd. “stand alone”, autonome, in cui la richiesta di risarcimento del danno non è preceduta da un accertamento della violazione della concorrenza. Nel caso esaminato dalla Corte, si rientrava in quest’ultima tipologia..
È rispetto alle azioni autonome (stand alone) che si pongono i problemi più delicati, per le seguenti ragioni. In primo luogo le azioni per il risarcimento del danno causato da violazioni del diritto della concorrenza richiedono una complessissima analisi fattuale ed economica, spesso non sostenibile dagli attori privati. In secondo luogo, gli elementi di prova necessari per comprovare la fondatezza di una domanda di risarcimento del danno sono spesso detenuti esclusivamente dalla controparte o da terzi e non sono sufficientemente noti o accessibili all’attore. Appare allora evidente che, in tali circostanze, imporre all’attore, già nell’atto introduttivo, di specificare gli elementi di prova a sostegno della propria richiesta può costituire un impedimento insormontabile all’effettivo esercizio del diritto al risarcimento riconosciuto dal diritto europeo.
Per tali ragioni la Corte di Cassazione ha riconosciuto che il diritto al risarcimento previsto dall’ordinamento europeo per i danni derivanti dalle violazioni del diritto della concorrenza richiede che ciascuno Stato membro disponga di norme procedurali che garantiscano l’effettivo esercizio di tale diritto.
Di conseguenza, ha chiarito la Corte, il giudice è chiamato a non applicare meccanicamente il principio dell’onere della prova, ma a rendere effettiva la tutela dei privati che agiscono in giudizio. Perciò, tenuto conto delle difficoltà sopra esposte, egli deve limitare l’onere in capo all’attore, il quale, per poter agire in giudizio, sarà tenuto solo ad “indicare in modo sufficientemente “plausibile” seri indizi dimostrativi della fattispecie denunciata come idonea ad alterare la libertà di concorrenza”.
A compensare un tale ammorbidimento del principio dell’onere probatorio richiesto all’attore, deve essere l’iniziativa d’ufficio del giudice. La Suprema Corte, infatti ha spiegato che il giudice è tenuto ad interpretare “estensivamente le condizioni stabilite dal codice di procedura civile in tema di esibizione di documenti, richiesta di informazioni e consulenza tecnica d’ufficio, al fine di esercitare, anche officiosamente, quei poteri d’indagine, acquisizione e valutazione di dati e informazioni utili per ricostruire la fattispecie anticoncorrenziale denunciata”.
In definitiva, la Suprema Corte con questa interpretazione esalta il ruolo dei giudici nazionali e la funzione essenziale da essi svolta nel garantire ai privati una tutela effettiva dei propri diritti a fronte di violazioni della normativa europea in materia di libera concorrenza.